Article credit: Rolling Stone Italia / Michele Bisceglia. Articolo originale
Photo credit: Davide Armani & Nico Brignoli
Italian and international artists, producers and topliners, from Hendrix Smoke to Lazza, from Matt Cohn to Calcutta, met in Milan to write together and exchange ideas. Here's how it went...
«Un piccolo miracolo: una cosa che non esiste dopo due ore c’è». Federica Abbate commenta così una canzone che abbiamo appena finito di ascoltare in uno degli studi del Moysa a Milano, dove Universal Publishing ha portato alla fine di marzo l’UMPG Global Writing Camp, un evento per addetti ai lavori ai massimi livelli.
Per questi tre giorni, sono arrivati in Italia quattro notevoli produttori statunitensi – Hendrix Smoke, Roy Lenzo, Matt Cohn e Sean Turk – affiancati a Mahmood, Bresh, Ernia, Capo Plaza, Clara, Blanco, Tony Boy, Calcutta, Anna e Lazza.
Insieme a producer e artisti urban, in un contesto da factory warholiana, sono stati invitati autori e topliner, ossia coloro che sviluppano le melodie dei pezzi: ci sono quindi con loro Davide Petrella, Jacopo Ettorre, Alessandro La Cava e, appunto, Federica Abbate.
«Andiamo avanti fino a tarda sera», racconta Lucrezia Savino, A&R di Universal Music Publishing Italy che ha organizzato il camp insieme all’A&R Director Klaus Bonoldi, descrivendo il progetto come «un bellissimo snodo artistico, un laboratorio creativo in cui artisti, topliner e producer scrivono insieme le canzoni, partendo da zero». È la prima volta in assoluto che un camp internazionale viene organizzato in Italia. «L’anno scorso, per esempio, abbiamo portato Mahmood, Rhove e Anna a Lisbona», spiega Savino, «poi c’è stata una joint venture tra Messico e Nashville e un camp trap a Parigi. Ovviamente in Italia ci sono già stati camp di scrittura fra artisti italiani e produttori italiani, ma mai con producer americani come facciamo qui oggi».
L’obiettivo dell’Universal Music Publishing’s Global Creative Group, che ha messo in piedi questa tre giorni milanese, è sostenere gli artisti locali e spingerli verso il successo globale. Nato nell’ottobre del 2022, il team di lavoro raggruppa leader creativi provenienti da tutto il mondo ed è impegnato in prima linea nel panorama internazionale della scrittura di canzoni, supportando anche inedite fusioni fra generi musicali.
Come raggiungono questo scopo? Attraverso specifici programmi senza confini, tra cui collaborazioni tra stili e aree geografiche differenti, featuring fra artisti e seminari di scrittura di canzoni come questo o altri simili che in passato hanno toccato paesi come Brasile, Africa, Cina, Messico, India e Corea. Questo è dunque un battesimo di fuoco per l’Italia e noi abbiamo il piacere di curiosare dietro le quinte e vedere come nasce e cresce una canzone partorita dall’incontro tra producer americani e artisti italiani.
«Sinceramente è davvero molto bello», dice il produttore Sean Turk seduto davanti alla console su cui sta lavorando a un pezzo di Tony Boy, scritto oggi stesso con Jacopo Ettorre. «Di solito prima delle session sono nervoso, ma qui abbiamo trovato subito la chimica giusta, ci siamo capiti immediatamente e abbiamo creato qualcosa di nuovo», racconta Sean, producer che ha lavorato con Bad Bunny, Lil Wayne e Feid. «Rispetto a me, Tony e Jacopo guardano in modo diverso la struttura dei pezzi, mi hanno aperto gli occhi su come riarrangiare una canzone in un modo in cui io non avrei mai pensato».
L’UMPG Global Writing Camp funziona così: per tre giorni, a rotazione, in ogni studio del Moysa si siedono un producer, un artista e un topliner, ossia colui o colei che scrive le linee melodiche dei brani. Questi professionisti americani e italiani non si sono mai incontrati prima d’ora, ma in meno di 24 ore tirano fuori insieme una canzone per farla diventare una prossima hit.
Studio che vai, atmosfera che trovi: per esempio, Calcutta e Matt Cohn sono quasi al buio, concentratissimi, assorti nel loro lavoro. Mentre Cohn, un producer che ha lavorato su Dawn FM di The Weeknd, ci racconta del suo ultimo viaggio in Italia per un matrimonio di amici, Calcutta si mette su un divanetto a macinare idee, versi e melodie. Usciamo per non disturbare ulteriormente, ma in corridoio incrociamo un pimpante Davide Petrella, reduce da un’intensa giornata di lavoro con artisti connazionali e producer americani.
«Loro hanno il suono, noi abbiamo le canzoni», Petrella spiega così il suo punto di vista sulle differenze tra i professionisti della musica made in USA e gli italiani. «Gli americani possono imparare da noi a scrivere i pezzi», dice Petrella, «perché il suono della lingua inglese rende tutto più semplice, mentre cucire testi e melodie in italiano è più complicato. Siamo qui per mischiarci, mi piace confrontarmi e sono sempre felice di conoscere produttori e artisti nuovi, è sempre stimolante ed è un’occasione per imparare qualcosa da qualcun altro».
Naturalmente vogliamo anche il punto di vista degli americani, e dunque chiediamo a Hendrix Smoke – producer che ha lavorato con artisti come Nicki Minaj e Future – quali siano, secondo lui, le differenze più grandi tra Stati Uniti e Italia nell’ambito delle produzioni musicali: «Qui avete le casse migliori che in America!», commenta ridendo e indicando gli speaker del Moysa che incorniciano la sua postazione.
Sempre col cappuccio in testa, Hendrix si fa più serio: «Artisti e autori si sono voluti mettere al lavoro subito, senza perdersi in troppe chiacchiere e non ci siamo fermati fino a quando non abbiamo finito». Ecco un’altra differenza tra il mondo evidentemente più rilassato di Atlanta dal quale arriva lui e Milano, Italia, dove siamo ora. «Io avevo il beat, loro ci hanno messo su le parole e la melodia, ed è stato facile lavorarci sopra, fantastico», conclude Hendrix.
«Lavorare con gente straniera ti sprona di più», dice invece Jacopo Ettorre, «anche solo perché sono contenti di trovarsi dall’altra parte del mondo e quindi ti trasmettono questa eccitazione». Seduto su un divanetto all’ingresso degli studi, in un momento di relax, Jacopo spiega l’approccio tipicamente italiano alla scrittura (ricordiamo che c’è anche la sua mano in pezzi come Tuta gold di Mahmood o Due di Elodie, giusto per citarne un paio): «Noi siamo dentro la musicalità delle canzoni, abbiamo nel sangue le melodie catchy e l’alleggerire le strutture. Gli americani invece seguono molto di più il gusto, che è più soggettivo, e il loro lavoro è un flusso di idee continuo, si gasano subito, a differenza mia, che sono più pignolo e mi concentro magari a lungo su un singolo pezzo di melodia».
Trascorrere qualche minuto nella stanza dei bottoni con produttori, autori e cantanti è un’ottima opportunità per capire chi fa cosa nel processo di costruzione di un brano e apprezzare ancora di più la dimensione artigianale dell’autorato.
Ne approfittiamo quindi per farci spiegare da Federica Abbate chi è e cosa fa una topliner come lei, nome ricorrente nei crediti degli hit single nostrani: «Tiro fuori la melodia che c’è già dentro un beat e la porto al massimo, massimizzo quello che sto ascoltando».
Federica è entusiasta del suo lavoro e spiega che «gli americani partono di solito dai campioni, sono molto più cupi nella costruzione del beat, mentre noi siamo abituati a partire dai giri armonici». E sul creare un brano come quello fatto oggi, un potenziale successo scritto in meno di una giornata, dice che «è così che deve essere, perché se stai troppo tempo su qualcosa è perché non funziona».
Ogni produttore ha un suo tocco magico e un proprio concetto di lavoro. Hendrix Smoke dice che il proprio tratto distintivo è il bouncing, mentre Roy Lenzo parla di varietà dei suoni nei brani urban pop a cui lavora, input che arrivano anche da esperienze come questa: «Quando viaggio vedo e sento sempre cose diverse che mi ispirano e che metto poi nei lavori che faccio a casa».
Per Lenzo, fare il produttore significa «fare emergere tutte le idee che girano in uno studio, accertarmi che ci sia una vera collaborazione tra gli artisti coinvolti e tirar fuori la migliore canzone possibile».
Secondo Sean Turk, invece, «a livello astratto il produttore aiuta l’artista a dipingere il quadro che ha in testa: io ci metto il piano, la batteria, il basso, e da zero diamo ritmo della canzone». Ma qual è la parte più importante di un pezzo? «Testo e melodia: se ti rimane in testa e ti ritrovi a cantarla significa che ha funzionato. Ogni canzone ha la possibilità di essere una hit, ma alla fine dipende dalle persone decidere se è un successo oppure no».
«Il pezzo deve avere un focus, parlare di qualcosa e non essere un’accozzaglia di robe diverse», spiega Davide Petrella, co-autore di quattro successi dell’ultimo Sanremo: «Deve esserci coerenza. Io sono un grande appassionato delle parole, sia in chiave profonda che leggera e di intrattenimento: quando riesci a creare il mix di parole giuste su una melodia giusta, spacchi tutto». E il pezzo a cui ha lavorato oggi, che prospettive ha in tal senso? «Sinceramente mi sembra molto figo, è killer e potrebbe uscire a breve».
In un momento storico in cui c’è molta più attenzione al lavoro di produttori e autori e i loro nomi emergono molto di più rispetto al passato, quando restavano nascosti dietro gli artisti e i titoli dei tormentoni, è interessante chiedere ai presenti quale consiglio darebbero a un giovane interessato a imboccare questa strada.
«Scrivere aiuta a scrivere», è la risposta di Jacopo Ettorre: «Bisogna scrivere tanto ed essere autocritici, fare tante esperienze. Essere curiosi è la vera chiave per intraprendere questo percorso e fare questo mestiere».
Rilassatissimo al mixer, Roy Lenzo consiglia invece di «iniziare a lavorare con i tuoi amici, creare nuovi generi: è inutile cercare l’aggancio con l’artista più grande perché forse il prossimo Bad Bunny o il prossimo Lil Nas X è seduto proprio accanto a te».